“Il fervore”, di Mons. Guérard des Lauriers o.p.

Mons. Guérard des Lauriers propone al lettore la dottrina tomista sul fervore e sul merito

Il testo di Padre Guérard riprende e approfondisce la dottrina di San Tommaso e dei suoi migliori commentatori, sull’aumento della grazia e sul fervore. La grazia ed il libero arbitrio sono verità rivelate: benché non riusciamo a comprendere totalmente il loro legame, e l’uomo umile se ne rende conto facilmente, tuttavia possiamo averne una certa intelligenza grazie a ciò che Iddio ci ha Rivelato. L’aumento della carità può avvenire solo per mezzo di un atto più fervente rispetto al grado attuale di carità posseduto dall’anima. “L’atto fervente consiste nell’esercitare la carità – sia in sé stessa, sia in quanto è la forma dell’atto – ad un certo grado, ad un grado che sorpassa il livello dell’esercizio abituale”, scrive P. Guérard.

Ma vi sono altre questioni soggiacenti a questo problema, come quella del merito soprannaturale delle nostre azioni: ad essa si collega lo stato del nostro fervore ed il nostro avanzamento nella vita spirituale. Ci si chiede: tutte le azioni che facciamo possono essere meritorie? Tutte possono ottenerci un aumento di fervore e di grazia nella nostra anima? Tutte possono ottenere una più grande gloria in Cielo?

Dobbiamo ricordare alcuni elementi di dottrina. Ci serviamo citando liberamente due autori fedeli discepoli di S. Tommaso: Royo Marin, Teologia della Perfezione Cristiana, n. 103 (Edizioni Paoline, 1965); P. Garrigou Lagrange: “L’augmentation de la charité et les actes imparfaits” (La vie spirituelle, n. 64, Janvier 1925).

Il merito è il valore di un’opera che la rende degna di ricompensa. Esistono due specie di merito: merito de condigno, che si fonda su ragioni di giustizia, ma sempre a causa della promessa divina, per cui vi è una proporzione tra l’atto buono e la ricompensa; merito de congruo, che si fonda su una certa convenienza da parte dell’opera e su una certa liberalità di colui che ricompensa.

È verità di fede che nessuno può con le sole forze naturali compiere opere meritorie per la vita eterna. Nessuno può meritare soprannaturalmente senza un previo dono di Dio: il merito suppone la grazia. L’opera meritoria è ordinata alla vita eterna secondo giustizia.

È verità di fede che il giusto può meritare con le sue opere buone l’aumento della grazia, la vita eterna e l’aumento della gloria per il Cielo. Il merito suppone sempre la libertà: ogni atto libero, se è in relazione con Dio, può essere meritorio. Non importa la natura dell’opera, ma il motivo e il modo con sui si esegue: così il Signore ha promesso la ricompensa per un semplice bicchier d’acqua offerto per amor Suo. Perciò anche un’azione materialmente insignificante fatta con ardente carità, fatta solo per piacere a Dio, è molto più meritoria di un’azione importante realizzata con minore ardore di carità o per un motivo meno perfetto. Il merito soprannaturale si valuta innanzitutto dalla carità: l’intensità dell’amor di Dio con cui si realizza un’azione, determina il grado del suo merito.

E qui si arriva ad un aspetto importante sulla questione del merito. Come può aumentare la carità nella nostra anima? E di conseguenza, come può aumentare il merito per il Cielo? Qualunque atto buono fatto da chi è in grazia di Dio, comporta sempre un aumento di carità? Secondo San Tommaso ed i suoi commentatori più fedeli, la risposta è no, qualunque atto non comporta sempre un aumento: “non con qualsiasi atto di carità, la carità aumenta in atto”. Perché si realizzi l’aumento effettivo della carità occorre che la persona faccia un atto di carità più intenso rispetto al grado di carità che ella possiede attualmente. In termini scolastici, è necessario un atto più intenso dell’abito di carità che si possiede: “non con qualsiasi atto di carità, la carità aumenta in atto; ma qualunque atto di carità dispone all’aumento della carità, in quanto a partire da un solo atto di carità l’uomo si rende più pronto ad agire nuovamente secondo la carità; e crescendo questa sua capacità (habilitate crescente), l’uomo prorompe in un atto più fervente di carità, con il quale si accinge al progresso della carità; ed allora la carità aumenta in atto”. (S. Th. II II, 24, 6). Quest’atto più intenso suppone sempre una previa grazia attuale più intensa.

In altri termini, gli atti di carità fatti con fervore, anche se non danno subito un aumento della carità, fanno crescere le capacità dell’anima, predispongono l’anima a compiere poi un atto più fervente, più intenso, e quest’ultimo farà sì che la grazia e la carità presenti nella sua anima ricevano un aumento immediatamente; e di conseguenza gli otterrà una gloria più grande in Cielo.

Qui comprendiamo quanto sia importante nella vita del cristiano compiere degli atti con fervore, con amor di Dio; altrimenti si rischia di paralizzare la vita soprannaturale, pur vivendo in grazia di Dio e facendo delle opere buone.

Chi invece si accontentasse di compiere atti imperfetti (actus remissi), senza fervore, rischia di cadere in questa “paralisi” che porta ad una vita tiepida o rilassata nel servizio di Dio: fedeli, ecclesiastici, religiosi tutti possono cadervi. Ma occorre precisare che qui si parla dello sviluppo dovuto al merito soprannaturale; per quello derivante dai Sacramenti, vigono altre leggi: l’aumento della grazia dai Sacramenti è prodotto da loro stessi, ex opere operato, e non ha nulla a che vedere con l’aumento prodotto dal merito delle nostre azioni, che dipende da noi.

Così, chi ha dieci talenti ed agisce come se ne avesse soltanto due (fa dunque un atto imperfetto), non si dispone ancora a riceverne un undicesimo, perché si è limitato ad un atto notevolmente inferiore al grado di virtù che possiede. Anche nell’ordine naturale vediamo qualcosa di analogo. Un uomo molto intelligente, che non si sforza tanto nel lavoro, progredirà poco nello studio delle scienze, mentre un altro, meno intelligente ma che si sforza, giungerà all’acquisizione della scienza.

Gli atti imperfetti quindi non possono dare immediatamente un aumento di carità. Il motivo è il seguente: Dio non dà l’aumento della grazia santificante che secondo la disposizione del soggetto che deve riceverla. Questo motivo Suarez non lo riconosce e sostiene invece che gli atti imperfetti (actus remissi) ottengono subito l’aumento della carità. Tale teoria oltre a non corrispondere all’insegnamento di S. Tommaso, può offrire una giustificazione alla tiepidezza e rassicurare chi, pur restando in grazia di Dio, non cerca più la perfezione. È vero che non sono atti cattivi, che possono servire ad un’anima affinché non si raffreddi del tutto, con il pericolo di cadere in peccato mortale, e inoltre causano per il paradiso un aumento della gloria accidentale, non però della gloria essenziale.

La dottrina di S. Tommaso invece ci aiuta a combattere la tiepidezza e il rilassamento al servizio di Dio, ed è sempre coerente: vediamo ad esempio nelle conversioni che la grazia santificante è data da Dio secondo le disposizioni o il fervore di chi si converte. Perciò la conversione di un peccatore ad una grande santità, come S. Maddalena o S. Paolo, piace di più a Dio che la conversione di molti peccatori che non vanno al di là dei primi gradi della vita spirituale. Infatti Dio, benché non possa essere amato dalle creature quanto merita, cioè infinitamente, può e deve essere amato totalmente, con tutto il nostro cuore, tutta la nostra anima, tutta la nostra mente e tutte le nostre forze (MC 12, 30; II, 27, 5).

Dio è più glorificato da un solo atto di carità di dieci talenti, che da dieci atti di carità di un solo talento ciascuno; un solo giusto molto perfetto piace di più a Dio che molti altri che però restano nella mediocrità o nella tiepidezza. La qualità è superiore alla quantità.

Lo Spirito Santo muove generalmente le anime secondo il grado delle loro virtù o doni o delle loro disposizioni: sarebbe qualcosa di incomprensibile se muovesse senza motivo a degli atti imperfetti. E per le anime più elevate, invano avrebbero ricevuto un grado di virtù infuse e doni. Dobbiamo perciò concludere che se il giusto non mette ostacoli all’azione di Dio, riceverà delle grazie sempre più elevate per camminare verso Dio, alla luce della saggezza divina o della contemplazione.

IL FERVORE

Testo composto da P. Guérard des Lauriers a Le Saulchoir,
scuola teologica della provincia francese dei Domenicani, senza data
pubblicato in Sodalitium n° 18 di novembre-dicembre 1988

“Sono venuto a portare fuoco sulla terra, e che cosa desidero se non che si accenda?” (S. Luca XII, 49)

Sia nell’ordine morale, ed ancor più nell’ordine teologale, siamo invitati, durante tutta la nostra vita, a porre degli atti di virtù di fede, di speranza, di carità, poiché queste virtù teologali, a loro volta, informano tutte le altre. E estremamente importante che le nostre azioni siano degli atti ferventi. E il desiderio di Gesù. Poniamo sotto il Suo patronato qualche riflessione sulla natura dell’atto fervente.

Il fervore come viene classicamente definito, è semplicemente un certo grado nella carità. Ma vorrei attirare la vostra attenzione, questa mattina, sull’importanza dell’atto fervente da un altro punto di vista. Non solo il fervore modifica il grado dell’atto, ma ne cambia anche l’economia; considerando d’altronde quest’ultima nei confronti di noi stessi, di Dio e del prossimo. In sorta che l’importanza degli atti ferventi ha un carattere – in un certo senso – totalitario. Non concerne solamente il nostro progresso individuale nella virtù, ma concerne anche una situazione d’insieme: il fervore spetta al figlio di Dio, ma anche all’immagine di Dio ed al membro del Corpo mistico. Quelle che sto per dirvi non sono nuove verità; nessuno ignora che data la solidarietà che lega lutti i membri di Cristo, la più piccola delle nostre azioni ha come conseguenza, per l’appunto, una sopraelevazione del grado di carità in tutto il Corpo mistico.

Come può accadere? Il fondamento di questa verità consiste nel nostro essere immagine di Dio, e che la maggior somiglianza che risulta dall’atto fervente tra Dio e chi lo pone, ha come necessaria conseguenza – data la solidarietà tra i membri del Corpo mistico – una nuova assimilazione di tutti a Dio, e pertanto una sopraelevazione del grado di carità di ciascuno dal fatto dell’aumento della carità di qualcuno.

Vedremo quali sono i condizionamenti dell’atto fervente, considerandolo rispettivamente in rapporto a noi stessi, in rapporto a Dio di cui siamo l’immagine ed in rapporto agli altri.

Partiamo da un’osservazione molto semplice: l’atto fervente consiste nell’esercitare la carità – sia in se stessa, sia in quanto e la forma dell’atto – ad un certo grado, ad un grado che sorpassa il livello dell’esercizio abituale; questo grado dell’atto fervente è, nel momento in cui viene posto, il grado massimo di cui siamo capaci, e questo grado oltrepassa l’esercizio ordinario precedente. Evidentemente, l’atto fervente non ha sempre la stessa misura, secondo le diverse fasi del progresso della carità: quanto più siamo vicini a Dio, tanto più l’atto fervente deve divenire fervente. Il progresso dell’habitus di carità si realizza come il progresso di tutti gli altri habitus; è mediante degli atti ferventi, che sorpassano il regime attualmente realizzato, che si raggiunge un nuovo grado.

Abitualmente gli scolastici fanno uso del paragone delle gocce di pioggia che scavano la roccia; non bisogna pensare che ogni goccia toglie un piccolo frammento, e che il buco è provocato dall’addizione pura e semplice dell’azione di ogni goccia; c’è un certo numero di gocce che preparano il terreno – per così dire – ammorbidendolo e che penetrano la roccia senza scalfirla, ed è solo l’ultima goccia che toglie il frammento pronto ad essere staccato.

Ebbene, la stessa cosa accade nell’ordine morale. C’è un certo numero d’atti, che d’altra parte ci costano di più, e che preparano l’anima a ricevere un nuovo grado di carità; ma è l’ultimo atto, per l’appunto quello che chiamiamo fervente, più intenso degli altri, che comporta un accrescimento dell’habitus di carità. L’atto fervente è quindi l’atto che misura adeguatamente il grado di grazia donato attualmente e gratuitamente. In seguito il processo incomincia nuovamente.

Non possiamo più, giunti ad un certo grado di carità, porre degli atti che sono inferiori a questo grado senza mancare. Possiamo farlo, nel senso che è una cosa possibile; ma questi atti che in teologia si chiamano “remissi”, vale a dire inferiori al grado di cui siamo effettivamente capaci, molto spesso ci fanno più male che dei peccati, perché ci abituano ad un regime teologale inferiore a quello che dovremmo avere, e per di più in modo surrettizio, in tal sorta che non ce ne accorgiamo. Un peccato – purché la nostra coscienza sia già sufficientemente delicata – è riconosciuto come tale, mentre gli atti meno ferventi di quelli che possiamo porre ci sono, di per sé, molto meno sensibili che dei peccati. E uno scoglio al quale bisogna fare estrema attenzione, perché è così che si spiega che tante vite che dovrebbero essere ferventi, e che erano partite con fervore, vegetano di fatto e restano ben al di sotto di quanto avrebbero dovuto produrre.

L’atto fervente inaugura pertanto un nuovo regime della carità, ed è impossibile senza colpa e grave inconveniente di decadere in seguito da questo regime.

L’atto fervente di carità non è altro che una comunione più intensa con quel Dio che è Amore; ed è questo il punto che è importante sottolineare, ed è quanto cercheremo di fare. Sappiamo tutti che l’atto fervente ha un “grado” più grande che gli altri atti: è la sua definizione stessa. Ma, forse, non prestiamo abitualmente abbastanza attenzione alle ragioni profonde della crescita della carità ed alle ripercussioni che ha in tutta la vita teologale.

Poiché l’atto di carità è una comunione con quel Dio che è Amore, quanto più l’atto è fervente tanto più deve realizzare la natura stessa della carità, vale a dire essere una comunione col Dio Amore. Per noi, il progresso quanto al grado è più sensibile, perché registriamo sempre le cose in maniera quantitativa: è più semplice; ma questo progresso quanto al grado va di pari passo con un progresso quanto alla qualità: vale a dire che l’atto fervente realizza meglio la natura della carità che non l’atto che fervente non è. E poiché la natura della carità consiste in una comunione col Dio Amore, ne segue che l’atto fervente mette in opera in maniera più profonda le risorse di questa comunione con Dio che è Amore: in sorta che l’essere dell’atto fervente è – in qualche modo – maggiormente prodotto da Dio che non l’essere dell’atto che è meno fervente.

Portiamo il ragionamento all’estremo: è sempre il metodo più semplice per capire i casi intermedi.

Nella visione beatifica, l’atto che porremo consisterà unicamente nel partecipare alla visione che Dio ha di se stesso; non esiste, nel nostro atto di visione di Dio un verbo del nostro intelletto, che sarebbe un intermediario creato tra Dio e noi, il che, come sapete, è da escludersi. Al punto che in questo atto di visione – che sarà evidentemente accompagnato dalla carità al grado di massimo fervore – ci rendiamo ben conto che l’essere di questo atto non ha più la stessa economia che l’essere dei nostri atti di fede e di carità su questa terra. Constatiamo come un ribaltamento quanto alla struttura stessa dell’atto: invece di far assegnamento sulla produttività del soggetto creato, l’essere dell’atto non consiste più che nella partecipazione del soggetto creato all’Essenza stessa di Dio.

Evidentemente, si tratta di un mistero. Come può un atto che resta nostro – e questo è certo, altrimenti non saremmo noi ad essere beatificati -, come può un tal atto, conservando una misura creata, poiché è nostro e ci appartiene, consistere tuttavia nel suo essere stesso in una partecipazione all’Essere stesso di Dio? E il mistero della visione: vi accediamo gradualmente mediante il progresso della fede e dell’amore; ma questo mistero, in compenso, ci permette di capire in maniera più netta in che cosa consiste il carattere originale dell’atto fervente.

Ciò che la visione beatifica realizza in maniera decisiva e assoluta, ossia che il contenuto d’essere dell’atto di visione è costituito unicamente dall’atto stesso di contemplare che Dio ha di Sé, lo realizzano similmente i nostri atti ferventi, secondo la loro rispettiva misura. L’essere dell’atto, invece di riposare principalmente – e persino, nei momenti di prova, unicamente -, sulla produttività del soggetto, armato evidentemente delle virtù teologali, riposa al contrario sul dono di Dio. I doni dello Spirito Santo, ben inteso, mettono in vivo rilievo questo aspetto. Lo stesso vale per l’atto fervente di carità; l’associazione, la congiunzione della causa increata con la causa creata è differente, in questo caso, da come essa è abitualmente: vale a dire che, ancora una volta, la produzione dell’atto dipende altrettanto e più dall’iniziativa di Dio e da una produttività che viene immediatamente da Dio stesso che non dalla produttività personale.

Ne risulta che, mediante l’atto fervente, diventiamo immagine di Dio in un altro modo, in un grado diverso; poiché, più l’atto fervente è ben riuscito, e alla misura stessa del progresso del fervore, noi poniamo un atto nel quale la misura appartiene alla nostra persona creata e nel quale, tuttavia, l’essere dell’atto è della competenza di Dio. E certamente difficile, per un metafisico, analizzare lo statuto di un atto simile, lo statuto cioè di una realtà nella quale la misura dell’essere e l’essere stesso concernono due principi diversi: d’un lato la persona creata dalla quale dipende la misura dell’atto, e dall’altro la Persona Increata che fornisce come la sostanza intima dell’essere dell’atto.

Tuttavia, è proprio un regime di questo genere che dobbiamo realizzare poco a poco col progresso del fervore: e questo, nell’attesa della visione. In essa, definitivamente, come contributo proprio della creatura nell’atto di visione, resterà solo la determinazione ch’essa impone, e che costituisce in proprio l’eterna vocazione di ciascuno di noi, ma nella quale il contenuto dell’atto di visione, identico per tutti, è lo stesso nel quale Dio si contempla eternamente.

Il fervore, quindi, ci armonizza progressivamente con questo statuto di un atto le cui due componenti essenziali (da un lato la misura, e dall’altro l’essere) sono di competenza di una persona creata e di una Persona Increata. È il mistero stesso della carità che ci permette la produzione di un tal atto in virtù della nostra assimilazione a Dio. Egli, agendo in noi, e per il fatto stesso muovendo noi ad agire per essere assimilati a Lui, produce precisamente l’essere dell’atto, ma questa produzione è da attribuirsi ben più a Lui che a noi.

L’atto fervente attua in noi l’immagine di Dio in maniera ben più perfetta.

In effetti, nel mistero della Santa Trinità, possiamo concepire ogni Persona divina come costituente la misura di un atto d’essere, atto d’essere il cui contenuto però dev’essere riferito all’Essenza Trina. In sorta che ritroviamo, nella relazione che esiste tra le Persone divine, una struttura del tutto simile a quella di cui parlavamo poco fa a proposito dell’atto fervente. L’operazione generatrice, o generazione attiva vista a partire dalla Persona del Padre, d’un lato è misurata dal Padre nella Sua ineffabile Paternità, vale a dire nel segreto della Sua Persona, ma d’altro lato l’atto dell’essere di questa generazione attiva è identico all’essere dell’Essenza Trina. In sorta che la generazione attiva – e lo stesso si potrebbe dire di tutto ciò che ha ragione di processione nel seno della Trinità -, gode di questo privilegio e costituisce per noi un mistero simile a quello dell’atto fervente: d’un lato la misura dell’atto di competenza di un primo principio, e d’altro canto l’atto d’essere, il contenuto dell’atto, è di competenza di un secondo principio che è distinto dal primo. L’atto fervente e la processione divina hanno quindi, se si può dire, la stessa struttura ontologica. Capiamo così che il fervore ci rende effettivamente meglio immagine di Dio. Più siamo ferventi, più siamo vicini a Dio. E quanto sentiamo, istintivamente e semplicemente. Ma in cosa consiste questa prossimità? Nel fatto che la struttura stessa della nostra relazione a Dio nel momento in cui siamo nel fervore diviene come l’impronta di una struttura che è intima a Dio stesso.

Il comportamento intra-divino, in virtù del quale le Persone divine sono nello stesso tempo eguali secondo l’essere e distinte personalmente, questo comportamento intra-divino si imprime nella relazione dell’anima fervente con Dio; uno stesso atto, una stessa realtà, nello stesso tempo è misurata da un primo principio e sussiste in virtù di un secondo principio … Non facciamo altro che illustrare un mistero con un altro: il mistero della vita intima di Dio comparato col mistero della nostra intimità con Lui. Quanto più diventa profondo il mistero della nostra intimità con lui realizzando meglio, col fervore, l’essenza dell’amore che è assimilazione, tanto più il nostro atto diventa anche, per il fatto stesso, immagine dell’atto intimo di Dio.

Ecco pertanto un primo punto ben importante. L’atto fervente non consiste soltanto in una più grande perfezione – ed è già un primo argomento, se ne abbiamo bisogno, per stimolarci a restare nei fervore – ma realizza anche più pienamente il nostro destino essenziale, che è di essere immagine di Dio.

Tutte le creature sono immagine di Dio, ma noi lo siamo eminentemente; manifestare la gloria di Dio essendone l’immagine è la nostra più alta funzione; ebbene, il fervore ci rende effettivamente immagine di Dio in una maniera che è più perfetta. Il fervore è, per così dire, il fulgore dell’immagine, ciò che dona all’immagine il suo splendore.

Essere fervente, praticamente, vuol dire amare con tutto il cuore, praticare l’intierezza dell’amore, accogliere la croce che esige da parte nostra la produzione d’un atto fervente; e ciò è facilmente comprensibile da quanto abbiamo detto: è impossibile infatti che ci presentiamo con animo deliberato ed a cuor leggero per porre un atto che ci “mortifica”. L’atto stesso che poniamo quando accettiamo quel che in generale denominiamo una croce, non può non godere della proprietà che abbiamo riconosciuto all’atto fervente. Necessariamente, la misura dell’atto resta nostra: siamo ben noi che dobbiamo accogliere la contrarietà che si presenta sull’istante davanti a noi ed accettarla in vista della Croce di Nostro Signore. Tuttavia, l’essere dell’atto – ed è proprio qui che si pone il mistero dell’accettazione della croce nella comunione alla Croce -, dev’essere sempre più fornito gratuitamente da Dio. Se ci limitiamo a rassegnarci alle difficoltà che ci vengono dall’esterno, sappiamo bene che dobbiamo sostenerle; in questo caso allora, siamo noi che sosteniamo l’essere dell’atto da porsi. Se, al contrario, comunichiamo all’amore che ci propone la nostra croce come un mezzo di comunione alla Croce redentrice, accade che è l’influsso stesso di Dio nel proporci croce e Croce che sostiene l’atto da porsi. Si tratta di un’esperienza che avete fatto voi stessi, perché non c’è cristiano che non l’abbia fatta.

Accogliendo la croce con amore si è portati per portare la croce; se si è solo rassegnati alle difficoltà esterne, tutto il peso dell’atto da porre resta a nostro carico. Tutto considerato, la rassegnazione è cosa più difficile del fervore nell’accogliere la croce. Si tratta solo di fare il passo, appunto, e di entrare, in virtù dell’assimilazione dell’amore, in una tale comunione con Dio, che presiede a tutto, – sia all’Incarnazione redentrice nel suo insieme sia alla nostra comunione personale a questa Incarnazione redentrice – di entrare con Lui, dicevo, in una tale comunione che sia Lui che opera in noi e non più noi a dover operare, da soli, per accettare la croce.

In sorta che l’atto di accettazione della croce, se posto conformemente alla Saggezza divina, deve realizzare lo stesso statuto ontologico di cui parlavamo a proposito dell’atto fervente esattamente come dell’Atto intimo con Dio. La misura dell’atto resta necessariamente nostra, ma l’essere dell’atto deve sempre più venire da Dio nella misura stessa in cui sappiamo comunicare a Lui, fare della croce che ci propone la Sua opera per mezzo nostro, e non l’opera laboriosa della nostra rassegnazione.

Abbiamo pertanto due punti che si armonizzano l’un l’altro. Con l’atto fervente siamo più perfettamente immagine di Dio, con l’atto fervente siamo indotti a considerare meglio la croce che si presenta nella nostra vita. Per questo le due cose sono assolutamente inseparabili: non possiamo scrutare il Mistero increato e riposarci nella sua immutabile beatitudine senza accogliere nello stesso tempo – e ad un grado correlativo – la croce, come si presenta nelle nostre vite. Non c’è contemplazione senza ascesi, né ascesi senza contemplazione. Ci sono mille modi di ripetere la stessa cosa, ma la struttura dell’atto fervente ce lo ridice in un modo che, dal punto di vista dell’amore, sembra particolarmente eloquente ed intimamente costrittivo.

Infine, c’è un terzo aspetto dell’atto fervente, corollario incluso nella sua natura; vale a dire che, in virtù di questo atto, la solidarietà che esiste tra tutti i cristiani immagine di Dio, tra tutti i membri del Corpo mistico, passa all’atto, si attua in maniera perfetta, cioè in maniera migliore non solo quanto al grado, ma anche quanto alla qualità. L’atto fervente, essendo più conforme all’essenza dell’amore, realizza meglio l’assimilazione di ogni membro al Capo, ed in conseguenza l’assimilazione delle membra tra di loro. Questo dato fondamentale è messo in rilievo da quanto precede. L’atto fervente consiste essenzialmente nel fatto che l’atto d’essere dell’atto è a conto di Dio: la misura resta nostra, ma l’essere dell’atto è prodotto da Dio: è Lui che opera in noi. Avviene dunque che, nel seno stesso di quest’atto, chi lo pone diventa possessore di tutto ciò che Dio include in sé stesso. Non solo l’operazione divina sostiene noi stessi e l’atto fervente che stiamo compiendo, ma anche il dono della grazia e l’operazione secondo la grazia in tutti i membri del Corpo mistico. In sorta che, più ci dimettiamo dalla nostra attività, più il nostro atto fervente consiste nel riposarci nell’attività divina, tanto più influiamo, nel seno stesso dell’atto che poniamo, su tutto ciò che è incluso nell’essere di questo atto. Ora, ancora una volta, è Dio che pone l’essere di questo atto.

È lui che è all’interno, che è come il di dentro o la sostanza dell’atto fervente che poniamo. In sorta che, ponendo quest’atto, agiamo forse senza saperlo ma immancabilmente, su tutto ciò che contiene quest’atto, vale a dire su tutto l’essere di grazia del Corpo mistico. Tocchiamo i nostri fratelli, gli altri membri del Corpo mistico, nello stesso modo in cui li tocca Dio.

La mediazione necessaria che fonda l’unità tra i membri del Corpo mistico, cioè passare tramite Dio, comporta due aspetti che si concatenano: da noi a Dio, da Dio agli altri membri. Il fervore rende il più immediato possibile il primo di questi aspetti: essendo una cosa sola con l’operazione divina in virtù del fervore dell’atto abbiamo una presa su tutto ciò che include questa operazione divina, evidentemente nella misura in cui questa operazione divina ha presa a sua volta sugli altri; non possiamo forzare la libertà degli altri più di quanto non la forzi Dio. Non è questo il luogo per insistere sul dettaglio dell’intercessione degli uni per gli altri, ma volevo solo attirare la Vostra attenzione sul carattere in qualche sorta ontologico, immanente, necessario di questa azione che abbiamo gli uni sugli altri in virtù del fervore degli atti d’amore che poniamo.

Accade sovente che abbiamo più zelo per la santità degli altri che per la nostra, perché vediamo, perché sentiamo meglio per noi che per gli altri le difficoltà che si trovano nell’essere santi: siamo facilmente generosi, ma con la forza altrui, è cosa abbastanza frequente. Si desidera che gli altri siano santi, ma non ci si rende sufficientemente conto che bisognerebbe forse incominciare coll’esserlo sé stessi. I santi autentici sono più realisti, non si allarmano troppo del fatto che gli altri non sono abbastanza santi, ma piuttosto si danno da fare per esserlo essi stessi e. in conseguenza, far sì che anche gli altri siano santi. In fondo, non dobbiamo far nient’altro “perché” gli altri siano santi, se non esserlo noi stessi; il fatto stesso d’essere santi, di porre degli atti ferventi, costringe gli altri, dal di dentro, ad essere santi: nella misura, evidentemente, in cui si può costringere qualcuno ad esserlo; non possiamo costringere qualcuno che non lo vuole, poiché è necessaria un’accoglienza, un’accettazione libera della grazia; Dio stesso non costringe quanti rifiutano, ma si dona a chi lo attende. Ebbene, a quanti attendono possiamo dare quello che attendono, ed unicamente essendo ciò che dobbiamo essere. E questa una verità banale, ma forse troppo dimenticata ai nostri giorni. Essa si trova fondata sull’atto fervente, la cui struttura spiega bene il come di questa misteriosa solidarietà. Possiamo contribuire di più alla santità altrui essendo santi noi stessi, vale a dire ponendo degli atti ferventi, che con tutte le opere esteriori.

Se siamo ben convinti di questa verità – elementare in vita contemplativa – troveremo un nuovo argomento per stimolarci (all’atto fervente); i primi due argomenti che abbiano sviluppato sono più penetranti, più profondi, o – per meglio dire – più primitivi, poiché i tre argomenti sono inseparabili e convertibili con l’essenza del fervore; ma la fecondità è la più grande attrattiva della vita: essa finirà di convincerci a restare in un fervore così operante.

Il fervore è un qualcosa di operante, perché è un qualcosa che ci rende possessori dell’Atto stesso di Dio. È questa una verità che certamente non viviamo abbastanza: il grado normale della carità è il fervore, cioè, ancora una volta, la misura massima di agire che corrisponde alla grazia di ciascuno, ad ogni istante; e, se così è, l’atto di carità ci assimila a Dio che opera; ora. Dio è sempre operante; ne consegue che la cura che possiamo avere dell’altrui santità, l’efficacità della nostra azione presso gli altri, sotto qualunque forma, è inclusa in questa comunione che abbiamo con Dio che veramente opera. È Lui, e, in fondo, Lui solo che opera; il fervore consiste semplicemente nel restare al nostro posto, ma con tutta la misura del nostro essere e della nostra vocazione, in questo Dio che è un principio eternamente immanente – e quindi eternamente operante nelle anime – che inclina ad essere sante.

Il sol modo, credo, di costringere in maniera valida ed efficace gli altri ad essere santi, è di essere santi noi stessi. E in conseguenza del restare in questa convinzione e questa gioia che il grado di carità ci fa essere immagine di Dio in un altro modo, in un modo ancor più bello. Non possiamo misurare il grado di avvicinamento dell’immagine che siamo alla realtà, ma basta presentirla; basta che l’economia della nostra relazione con Dio diventi sempre più simile, sempre più conforme, sempre più partecipante all’economia stessa del Mistero di Dio. Ecco il polo increato nel fondamento trino dell’atto fervente.

Il secondo aspetto di questo fondamento, è l’accoglienza generosa e magnanima delle difficoltà della vita nella gioia: perché si tratta di un’opera propria dell’amore, ma anche in quella convinzione più alta, in quella serenità in un certo senso più alta della gioia perché essa è il calice nel quale riceviamo la pace stessa di Dio, in questa vita, cioè: che la nostra perfezione non è che un raggio, una manifestazione della gloria di Dio nell’universo delle anime.

E poi, infine, il terzo fondamento del fervore consiste in questa azione che abbiamo gli uni sugli altri per il solo fatto che, per l’appunto, restiamo nel fervore. “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e cosa desidero se non che si accenda?”; si tratta di un’immagine: ordinariamente si assimila la carità ad un fuoco; ebbene: il fervore è l’ardore di questo fuoco, è, nel fuoco, quella potenza che esso ha di propagarsi, di invadere e divorare ogni cosa. Bisogna che la carità attualmente esistente in noi si nutra di tutto, che metta in opera tutte le risorse umane, tutta la linfa spirituale tutta la ricchezza divina che è in noi; il fervore della carità è quanto abbiamo chiamato, in altri termini, l’intierezza dell’amore.

Sforziamoci di corrispondere al desiderio formulato da Nostro Signore stesso: Egli conosceva il radicamento, la ripercussione del fervore in una vita cristiana, ed innanzitutto nella Sua, poiché l’accettazione della Croce, il fatto che Egli stesso è nella Sua Umanità Immagine della Trinità, ed il fatto che è Capo del Corpo mistico, sono tre verità mutualmente connesse inseparabili l’una dall’altra che risplendono evidentemente nel momento della Passione e della Croce verso il quale ci conduce questo tempo liturgico. Dobbiamo portare mutualmente il fervore gli uni degli altri; certamente, bisogna pregare per gli altri, ma conviene innanzitutto essere intimamente attenti alla qualità d’unità che risulta dal fatto del fervore per tutte le anime che vanno a Dio, per tutto il Corpo mistico, per tutte le immagini di Dio. E questo semplice sguardo sulla grandezza del fervore in Saggezza divina che è, senza dubbio, la preghiera più semplice, che non distrae dall’adorazione, che nell’adorazione è inclusa e che, per di più, è la più efficace.

“Sono venuto a portare fuoco sulla terra, e che cosa desidero se non che si accenda?”