Breve esame critico del Novus Ordo Missæ

(Testo integro)

I

Nell’ottobre del 1967, al Sinodo Episcopale, convocato a Roma, fu chiesto un giudizio sulla celebrazione sperimentale di una cosiddetta «messa normativa», ideata dal Consilium ad exequendam Constitutionem de Sacra Liturgia.

Tale messa suscitò le piú gravi perplessità tra i presenti al Sinodo, con una forte opposizione (43 non placet), moltissime e sostanziali riserve (62 juxta modum) e 4 astensioni, su 187 votanti. La stampa internazionale di informazione parlò di «rifiuto», da parte del Sinodo, della messa proposta. Quella di tendenze innovatrici ne tacque. E un noto periodico, destinato ai Vescovi ed espressione del loro insegnamento, cosí sintetizzò il nuovo rito:

«[vi] si vuol fare tabula rasa di tutta la teologia della Messa. In sostanza ci si avvicina alla teologia protestante che ha distrutto il sacrificio della Messa».

Nel Novus Ordo Missæ, testé promulgato dalla Costituzione Apostolica Missale romanum, ritroviamo purtroppo, identica nella sua sostanza, la stessa «messa normativa». Né sembra che le Conferenze Episcopali, almeno in quanto tali, siano mai state nel frattempo interpellate al riguardo.

Nella Costituzione Apostolica si afferma che l’antico messale, promulgato da S. Pio V il 19 luglio 1570 ma risalente in gran parte a Gregorio Magno e ad ancor piú remota antichità (1) fu per quattro secoli la norma della celebrazione del Sacrificio per i sacerdoti di rito latino, e, portato in ogni terra, «innumeri præterea sanctissimi viri animorum suorum erga Deum pietatem, haustis ex eo… copiosus aluerunt». E tuttavia questa riforma, che lo pone definitivamente fuori uso, si sarebbe resa necessaria «ex quo tempore latius in christiana plebe increbescere et invalescere cœpit sacræ fovendæ liturgiæ studium».

Ci sembra evidente, in questa affermazione, un grave equivoco. Perché il desiderio del popolo, se fu espresso, lo fu quando – soprattutto per merito del grande S. Pio X – esso cominciò a scoprire gli autentici ed eterni tesori della sua liturgia. Il popolo non chiese assolutamente mai, onde meglio comprenderla, una liturgia mutata o mutilata. Chiese di meglio comprendere una liturgia immutabile e che mai avrebbe voluto si mutasse.

Il Messale Romano di San Pio V era religiosamente venerato e carissimo al cuore dei cattolici, sacerdoti e laici. Non si vede in che cosa l’uso di esso, con l’opportuna catechesi, potesse impedire una piú piena partecipazione e una maggiore conoscenza della sacra liturgia e perché, con tanti eccelsi pregi che gli sono riconosciuti, non lo si sia stimato degno di continuare a nutrire la pietà liturgica del popolo cristiano.

Sostanzialmente rifiutata dal Sinodo Episcopale, quella stessa «messa normativa» oggi si ripresenta e si impone come Novus Ordo Missæ; il quale non è stato mai sottoposto al giudizio collegiale delle Conferenze; né è stata mai voluta dal popolo (e men che meno nelle missioni) una qualsiasi riforma della Santa Messa. Non si riesce dunque a comprendere i motivi della nuova legislazione, che sovverte una tradizione immutata nella Chiesa dal IV-V secolo, come la stessa Costituzione Missale Romanum riconosce. Non sussistendo dunque i motivi per appoggiare questa riforma, la riforma stessa appare priva di un fondamento razionale, che, giustificandola, la renda accettabile al popolo cattolico.

Il Concilio aveva espresso bensí, con il par. 50 della Costituzione Sacrosanctum Concilium, il desiderio che le varie parti della Messa fossero riordinate, «ut singularum partium propria ratio necnon mutua connexio clarius pateant». Vedremo subito come l’Ordo testé promulgato risponda a questi auspici, dei quali possiamo dire non resti, nel risultato, neppure la memoria.
Un esame particolareggiato del Novus Ordo rivela mutamenti di portata tale da giustificare per esso lo stesso giudizio dato per la «messa normativa». Quello, come questa, è tale da contentare, in molti punti, i protestanti piú modernisti.

II

Cominciamo dalla definizione di Messa che si presenta al par. 7, vale a dire in apertura al secondo capitolo del Novus Ordo: «De structura Missæ».

«Cena dominica sive Missa est sacra synaxis seu congregatio populi Dei in unum convenientis, sacerdote præside, ad memoriale Domini celebrandum (2). Quare de sanctæ ecclesiæ locali congregatione eminenter valet promissio Christi “Ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum” (Mt. 18, 20)».

La definizione di Messa è dunque limitata a quella di «cena», il che è poi continuamente ripetuto (n. 8, 48, 55d, 56); tale «cena» è inoltre caratterizzata dalla assemblea, presieduta dal sacerdote, e dal compiersi il memoriale del Signore, ricordando quel che Egli fece il Giovedí Santo.

Tutto ciò non implica: né la Presenza Reale, né la realtà del Sacrificio, né la sacramentalità del sacerdote consacrante, né il valore intrinseco del Sacrificio eucaristico indipendentemente dalla presenza dell’assemblea (3). Non implica, in una parola, nessuno dei valori dogmatici essenziali della Messa e che ne costituiscono pertanto la vera definizione. Qui l’omissione volontaria equivale al loro «superamento», quindi, almeno in pratica, alla loro negazione (4).

Nella seconda parte dello stesso paragrafo si afferma – aggravando il già gravissimo equivoco – che vale «eminenter» per questa assemblea la promessa del Cristo: «Ubi sunt duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum in medio eorum» (Mt. 18, 20). Tale promessa, che riguarda soltanto la presenza spirituale del Cristo con la sua grazia, viene posta sullo stesso piano qualitativo, salvo la maggiore intensità, di quello sostanziale e fisico della presenza sacramentale eucaristica.

Segue immediatamente (n. 8) una suddivisione della Messa in liturgia della parola e liturgia eucaristica, con l’affermazione che nella Messa è preparata la mensa della parola di Dio come del Corpo di Cristo, affinché i fedeli «instituantur et reficiantur»: assimilazione paritetica del tutto illegittima delle due parti della liturgia, quasi tra due segni di eguale valore simbolico, sulla quale torneremo piú tardi.

Di denominazioni della Messa ve ne sono innumerevoli: tutte accettabili relativamente, tutte da respingere se usate, come lo sono, separatamente e in assoluto. Ne citiamo alcune: Actio Christi et populi Dei, Cena dominica sive Missa, Convivium Paschale, Communis participatio mensæ Domini, Memoriale Domini, Precatio Eucharistica, Liturgia verbi et liturgia eucharistica, ecc.
Come è fin troppo evidente, l’accento è posto ossessivamente sulla cena e sul memoriale anziché sulla rinnovazione incruenta del Sacrificio del Calvario. Anche la formula «Memoriale Passionis et Resurrectionis Domini» è inesatta, essendo la Messa il memoriale del solo Sacrificio, che è redentivo in sé stesso, mentre la Resurrezione ne è il frutto conseguente (5). Vedremo piú avanti con quale coerenza, nella stessa formula consacratoria e in generale in tutto il Novus Ordo, tali equivoci siano rinnovati e ribaditi.

III

E veniamo alle finalità della Messa.

1) Finalità ultima.
È il sacrificio di lode alla Santissima Trinità, secondo l’esplicita dichiarazione di Cristo nella intenzione primordiale della sua stessa Incarnazione: «Ingrediens mundum dicit: “Hostiam et oblationem noluisti: corpus autem aptasti mihi”» (Ps. XL, 7-9, in: Hebr. 10, 5).
Questa finalità è scomparsa:

  • dall’Offertorio, con la preghiera Suscipe, Sancta Trinitas,
  • dalla conclusione della Messa con il placeat tibi, Sancta Trinitas,
  • e dal Prefazio, che nel ciclo domenicale non sara piú quello della Santissima Trinità, riservato ora alla sola festa e che quindi sarà pronunziato una sola volta l’anno.

2) Finalità ordinaria.
È il Sacrificio propiziatorio. Anch’essa è deviata, perché anziché mettere l’accento sulla remissione dei peccati dei vivi e dei morti lo si mette sulla nutrizione e santificazione dei presenti (n. 54). Certo Cristo istituí il Sacramento nell’ultima Cena e si pose in stato di vittima per unirci al suo stato vittimale; questo però precede la manducazione e ha un antecedente e pieno valore redentivo, applicativo della immolazione cruenta, tanto è vero che il popolo assistendo alla Messa non è tenuto a comunicarsi sacramentalmente (6).

3) Finalità immanente.
Qualunque sia la natura del sacrificio è essenziale che sia gradito a Dio e da lui accettabile ed accettato. Nello stato di peccato originale nessun sacrificio avrebbe diritto di essere accettabile. Il solo sacrificio che ha diritto di essere accettato è quello di Cristo. Nel Novus Ordo si snatura l’offerta in una specie di scambio di doni tra l’uomo e Dio; l’uomo porta il pane e Dio lo cambia in «pane di vita»; l’uomo porta il vino e Dio lo cambia in «bevanda spirituale»: «Benedictus es, Domine, Deus universi, quia de tua largitate accepimus panem (o: vinum) quem tibi offerimus, fructum terræ (o: vitis) et manuum hominum, ex quo nobis fiet panis vitæ (o: potus spiritualis)» (7).

Superfluo notare l’assoluta indeterminatezza delle due formule «panis vitæ» e «potus spiritualis», che possono significare qualunque cosa. Ritroviamo qui l’identico e capitale equivoco della definizione della Messa: là il Cristo presente solo spiritualmente tra i suoi; qui pane e vino «spiritualmente» (e non sostanzialmente) mutati (8).

Nella preparazione dell’offerta, un consimile gioco di equivoci è attuato con la soppressione delle due stupende preghiere. Il «Deus, qui humanæ substantiæ dignitatem mirabiliter condidisti et mirabilius reformasti», era un richiamo all’antica condizione di innocenza dell’uomo e alla sua attuale condizione di riscattato dal sangue di Cristo: ricapitolazione discreta e rapida di tutta l’economia del Sacrificio, da Adamo all’attimo presente. La finale offerta propiziatoria del calice, affinché ascendesse «cum odore suavitatis» al cospetto della maestà divina, di cui si implorava la clemenza, ribadiva mirabilmente questa economia. Sopprimendo il continuo riferimento a Dio della prece eucaristica, non vi è piú distinzione alcuna tra sacrificio divino e umano.

Eliminando la chiave di volta bisogna costruire delle impalcature; sopprimendo le finalità reali se ne devono inventare di fittizie. Ed ecco i gesti che dovrebbero sottolineare l’unione tra sacerdote e fedeli, tra fedeli e fedeli; ecco la sovrapposizione, che immediatamente crollerà nel ridicolo, delle offerte per i poveri e per la chiesa all’offerta dell’Ostia da immolare. L’unicità primordiale di questa verrà del tutto obliterata: la partecipazione all’immolazione della Vittima diverrà una riunione di filantropi e un banchetto di beneficenza.

IV

Passiamo all’essenza del Sacrificio.

Il mistero della Croce non vi è piú espresso esplicitamente, ma in modo oscuro, velato, impercepibile dal popolo (9). Eccone le ragioni:

1) Il senso dato nel Novus Ordo alla cosiddetta «Prex eucharistica» è: «ut tota congregatio fidelium se cum Christo coniungat in confessione magnalium Dei et in oblatione sacrificii». (n. 54, fine).

Di quale sacrificio si tratta? Chi è l’offerente? Nessuna risposta a questi interrogativi.
La definizione in limine della «Prex eucharistica» è questa: «Nunc centrum et culmen totius celebrationis initium habet, ipsa nempe Prex eucharistica, prex scilicet gratiarum actionis et sanctificationis» (n. 54, pr.).

Gli effetti sono dunque sostituiti alle cause, di cui non si dice una sola parola. La menzione esplicita del fine dell’offerta, che era nel Suscipe, non è sostituita da nulla. Il mutamento di formulazione rivela il mutamento di dottrina.

2) La causa di questa non-esplicitazione del Sacrificio è, né piú né meno, la soppressione del ruolo centrale della Presenza Reale, cosí lampante prima nella liturgia eucaristica. Ve ne è una sola menzione – unica citazione, in nota, dal Concilio di Trento – ed è quella che si riferisce alla Presenza Reale come nutrimento (n. 241, nota 63). Alla Presenza Reale e permanente di Cristo in Corpo, Sangue, Anima e Divinità nelle Specie transustanziate non si allude mai. La stessa parola transustanziazione è totalmente ignorata.

La soppressione della invocazione alla terza Persona della SS.ma Trinità (Veni sanctificator), onde scendesse sopra le oblate come già discese nel grembo della Vergine a compiervi il miracolo della Divina Presenza, si inserisce in questo sistema di tacite negazioni, di degradazioni a catena della Presenza Reale.

L’eliminazione poi:

  • delle genuflessioni (non ne restano che tre del sacerdote e una, con eccezioni, del popolo, alla Consacrazione);
  • della purificazione delle dita del sacerdote nel calice;
  • della preservazione delle stesse dita da ogni contatto profano dopo la Consacrazione;
  • della purificazione dei vasi, che può essere non immediata, e non fatta sul corporale;
  • della palla a protezione del calice;
  • della doratura interna dei vasi sacri;
  • della consacrazione dell’altare mobile;
  • della pietra sacra e delle reliquie nell’altare mobile e sulla «mensa», quando la celebrazione non avvenga in luogo sacro (la distinzione ci porta diritti alle «cene eucaristiche» in case private);
  • delle tre tovaglie d’altare, ridotte a una sola;
  • del ringraziamento in ginocchio (sostituito da un grottesco ringraziamento di preti e fedeli seduti, in cui la Comunione in piedi ha il suo aberrante compimento);
  • di tutte le antiche prescrizioni nel caso di caduta dell’Ostia consacrata, ridotte a un quasi sarcastico «reverenter accipiatur» (n. 239).

Tutto ciò non fa che ribadire in modo oltraggioso l’implicito ripudio della fede nel dogma della Presenza Reale.

3) La funzione assegnata all’altare (n. 262).
L’altare è quasi costantemente chiamato mensa (10). «Altare, seu mensa dominica, quæ centrum est totius liturgiæ eucharisticæ» n. 49, (cfr. 262). Si specifica che l’altare deve essere staccato dalle pareti perché vi si possa girare intorno e la celebrazione possa farsi verso il popolo (n. 262); si precisa che esso deve essere il centro della congregazione dei fedeli cosí che l’attenzione si volga spontaneamente ad esso (ibid.).

Ma il confronto fra i nn. 262 e 276 sembra escludere nettamente che il SS.mo Sacramento possa essere conservato su questo altare. Ciò segnerà una dicotomia irreparabile tra la presenza, nel celebrante, del Sommo ed Eterno Sacerdote e quella stessa Presenza realizzata sacramentalmente. Prima esse erano un’unica presenza (11).

Ora si raccomanda di conservare il SS.mo in un luogo appartato, ove possa esplicarsi la devozione privata dei fedeli, quasi si trattasse di una qualsiasi reliquia, sicché entrando in chiesa non sarà piú il Tabernacolo ad attirare immediatamente gli sguardi ma una mensa spoglia e nuda. Si oppone ancora una volta pietà privata a pietà liturgica, si drizza altare contro altare.

Nella raccomandazione insistente di distribuire nella comunione le Specie Consacrate nella stessa Messa, anzi di consacrare un pane di grandi dimensioni (12), cosí che il sacerdote possa dividerlo con una parte almeno dei fedeli, è ribadito lo sprezzante atteggiamento verso il Tabernacolo come verso tutta la pietà eucaristica fuori della Messa: altro strappo violento alla fede nella Presenza Reale sinché durino le Specie consacrate (13).

4) Le formule consacratorie.
L’antica formula della Consacrazione era una formula propriamente sacramentale, e non narrativa, indicata soprattutto da tre cose:

  1. il testo della Scrittura, non ripreso alla lettera; l’inserto paolino «mysterium fidei» era una confessione immediata di fede del sacerdote nel mistero realizzato dalla Chiesa per mezzo del suo sacerdozio gerarchico;
  2. la punteggiatura e il carattere tipografico; vale a dire il punto fermo e daccapo, che segnava il passaggio dal modo narrativo al modo sacramentale e affermativo, e le parole sacramentali in carattere piú grande, al centro della pagina e spesso di diverso colore, nettamente staccate dal contesto storico. Il tutto dava sapientemente alla formula un valore proprio, un valore autonomo;
  3. l’anamnesi («Haec quotiescumque feceritis in mei memoriam facietis», che in greco suona: «eis ten emou anamnesin» – «volti alla mia memoria»). Essa si riferiva al Cristo operante e non alla semplice memoria di lui o dell’evento: un invito a ricordare ciò che Egli fece («hæc… in mei memoriam facietis») e come Egli lo fece, e non soltanto la sua persona o la cena.

La formula paolina oggi sostituita all’antica («Hoc facite in meam commemorationem») – proclamata come sarà quotidianamente nelle lingue volgari – sposterà irrimediabilmente, nella mente degli ascoltatori, l’accento sulla memoria del Cristo come termine dell’azione eucaristica, mentre essa ne è il principio. L’idea finale di commemorazione prenderà ben presto il posto dell’idea di azione sacramentale (15).
Il modo narrativo è ora sottolineato dalla formula: «narratio institutionis» (n. 55d), e ribadito dalla definizione della anamnesi, dove si dice che «Ecclesia memoriam ipsius Christi agit» (n. 55c).

In breve: la teoria proposta per l’epiclesi, la modificazione delle parole della Consacrazione e dell’anamnesi, hanno come effetto di modificare il modus significandi delle parole della Consacrazione. Le formule consacratorie sono ora pronunciate dal sacerdote come costituenti una narrazione storica e non piú enunciate come esprimenti un giudizio categorico e affermativo proferito da Colui nella cui persona egli agisce: «Hoc est Corpus meum» (e non: «Hoc est Corpus Christi») (14).

L’acclamazione, poi, assegnata al popolo subito dopo la Consacrazione: («Mortem tuam annuntiamus, Domine, etc.… donec venias») introduce, travestita di escatologismo, l’ennesima ambiguità sulla Presenza Reale. Si proclama, senza soluzione di continuità, l’attesa della venuta seconda del Cristo alla fine dei tempi proprio nel momento in cui Egli è sostanzialmente presente sull’altare: quasi che quella, e non questa, fosse la vera venuta.

Ciò è ancor piú accentuato nella formula di acclamazione facoltativa n. 2 (Appendix): «Quotiescumque manducamus panem hunc, et calicem bibimus, mortem tuam annuntiamus, Domine, donec venias»; dove le diverse realtà di immolazione e manducazione, e quelle di Presenza Reale e secondo avvento del Cristo, raggiungono il massimo di ambigüità (16).

Prosegue qui


Notas:
(1) – «Le preghiere del nostro Canone si trovano nel trattato De Sacramentis (fine del IV-V secolo) … La nostra Messa risale, senza mutamento essenziale, all’epoca in cui si viluppava per la prima volta dalla piú antica liturgia comune.

Essa serba ancora il profumo di quella liturgia primitiva, nei giorni in cui Cesare governava il mondo e sperava di poter spegnere la fede cristiana; i giorni in cui i nostri padri si riunivano avanti l’aurora per cantare un inno a Cristo come a loro Dio [cfr. Pl. jr., Ep. 96] … . Non vi è, in tutta la cristianità, rito altrettanto venerabile quanto la Messa romana» (A. Fortescue).

Il Canone romano risale, tale e quale è oggi, a San Gregorio Magno. Non vi è, in Oriente come in Occidente, nessuna preghiera eucaristica che, rimasta in uso fino ai nostri giorni, possa vantare una tale antichità! Agli occhi non solo degli ortodossi, ma degli anglicani e persino dei protestanti che hanno ancora in qualche misura il senso della tradizione, gettarlo a mare equivarrebbe, da parte della Chiesa Romana, a rinnegare ogni pretesa di rappresentare mai piú la vera Chiesa Cattolica » (P. Louis Bouyer).

 
(2) – In nota, per una tale definizione, si rimanda a due testi del Concilio Vaticano II. Ma a leggere quei due testi non si trova nulla che giustifichi tale definizione.

Il primo testo (decreto Presbyterorum Ordinis, n. 5) suona cosí: « …I presbiteri sono consacrati a Dio mediante il ministero del vescovo, in modo che… nelle sacre celebrazioni agiscano come ministri di Colui che ininterrottamente esercita la funzione sacerdotale in favore nostro nella Liturgia… E soprattutto con la celebrazione della Messa offrono sacramentalmente il Sacrificio di Cristo».

Ed ecco l’altro testo cui si rimanda (Costituzione Sacrosanctum Concilium, n. 33): «Nella Liturgia Dio parla al suo popolo. Cristo annunzia ancora il suo Vangelo. Il popolo a sua volta risponde a Dio con i canti e con la preghiera. Anzi, le preghiere rivolte a Dio dal sacerdote che presiede l’assemblea nella persona di Cristo vengono dette a nome di tutto il popolo santo e di tutti gli astanti». Non si spiega come da tali testi si sia potuto trarre la suddetta definizione. Notiamo poi l’alterazione radicale, in questa definizione della Messa, di quella del Vaticano II (Presbyterorum Ordinis, 1254): «Est ergo Eucharistica Synaxis centrum congregationis fidelium…». Fatto sparire fraudolentemente il centrum, nel Novus Ordo la congregatio stessa ne ha usurpato il posto.

 
(3) – Cosí il Tridentino sancisce la Presenza Reale: «Principio docet Sancta Synodus et aperte et simpliciter profitetur in almo Sanctæ Eucharestiæ sacramento post panis et vini consacrationem Dominum nostrum Iesum Christum verum Deum atque hominem vere, realiter ac substantialiter [can. 1] sub specie illarum rerum sensibilium contineri». (DB, 874). Nella Sessione XXII, che ci interessa qui direttamente (De sanctissimo Missæ Sacrificio), la dottrina sancita (DB, nn. 937a fino a 956) e chiaramente sintetizzata in nove canoni:

  • La Messa è vero, visibile sacrificio – non simbolica rappresentazione – «quo cruentum illud semel in cruce peragendum repræsentaretur atque illius salutaris virtus in remissionem eorum, quæ a nobis quotidie committuntur peccatorum applicaretur» (DB, 938).
  • Gesú Cristo Nostro Signore «sacerdotem secundum ordinem Mechisedech se in æternum [Ps. 109, 4] constitutum declarans, corpus et sanguinem suum sub specibus panis et vini Deo Patri obtulit ac sub earundem rerum symbolis Apostolis (quos tunc Novi Testamenti sacerdotes constituebat), ut sumerent, tradidit, et eisdem eorumque in sacerdotio successoribus, ut offerent, præcepit per hæc verba: “Hoc facite in meam commemorationem” [Lc. 22, 19; I Cor. 11, 24] uti semper catholica Ecclesia intellexit et docuit». (DB, ibid.).
    Il celebrante, l’offerente, il sacrificatore è il sacerdote, a ciò consacrato, non il popolo di Dio, l’assemblea. «Si quis dixerit, illis verbis: “Hoc facite” etc. Christum non instituisse Apostolos sacerdotes, aut non ordinasse, ut ipsi aliique sacerdotes offerent corpus et sanguinem suum: anathema sit» (Can. 2; DB, 949).
  • Il Sacrificio della Messa è un vero sacrificio propiziatorio e NON una «nuda commemorazione del sacrificio compiuto sulla croce». «Si quis dixerit; Missæ sacrificium tantum esse laudis et gratiarum actiones aut nudam commemorationem sacrificii in cruce peracti, non autem propitiatorium; vel soli prodesse sumenti, neque pro vivis et defunctis, pro peccatis, pœnis, satisfactionibus et aliis necessitatibus offeri debere, a.s.» (Can. 3; DB, 950).

Si ricorda inoltre il can. 6: «Si quis dixerit Canon Missæ errores continere ideoque abrogandum esse, a.s.»; (DB, 953) e il canone 8: «Si quis dixerit Missæ, in quibus solus sacerdos sacramentaliter communicat, illicitas esse, ideoque abrogandas, a.s.» (DB, 955).

 
(4) – Ora è superfluo asserire che, se venisse negato un solo dogma definito, crollerebbero ipso facto tutti i dogmi, in quanto crollerebbe il principio stesso della infallibilità del supremo solenne Magistero Gerarchico, papale o conciliare che sia.

 
(5) – Si dovrebbe aggiungere anche l’Ascensione ove si volesse riprendere l’Unde et memores, che d’altronde non accomuna ma nettamente e finemente distingue: …«tam beatæ Passioni, nec non ab inferis Resurrectionis, sed et in cœlum gloriosæ Ascensionis».

 
(6) – Tale spostamento di accento è riscontrabile anche nella sorprendente eliminazione, nei tre nuovi canoni, del Memento dei morti e della menzione della sofferenza delle anime purganti, alle quali il Sacrificio satisfattorio era applicato.

 
(7) – Cfr. Mysterium Fidei, ove Paolo VI condanna sia gli errori del simbolismo che le nuove teorie della «transignificazione» e «transfinalizzazione». «…aut ratione signi… ita instare quasi symbolismus, qui nullo diffitente sanctissimæ Eucharistiæ certissime inest, totam exprimat et exhauriat rationem presentiæ Christi in hoc Sacramento… aut de transubstantiationis mysterio disserere quin de mirabili conversione totius substantiæ panis in corpus et totius substantiæ vini in sanguinem Christi, de qua lonquitur Concilium Tridentinum, mentio fiat, ita ut in sola “transignificatione” et “transfinalizatione”, ut aiunt, consistant» (A.A.S. LVII, 1965, p. 755).

 
(8) – L’introduzione di nuove formule, o di espressioni che, pur ricorrendo nei testi dei Padri e dei Concili e nei documenti del Magistero, vengono usate in senso univoco, non subordinato alla dottrina sostanziale con cui formano una inscindibile unità (p. es. «spiritualis alimonia», «cibus spiritualis», «potus spiritualis», ecc.) è ampiamente denunciata e condannata nella Mysterium Fidei. Paolo VI premette che: «servata Fidei integritate, aptus quoque modus loquendi servetur oportet, ne indisciplinatis verbis utentibus nobis falsæ, quod absit, de Fide altissimarum rerum suboriantur opiniones»; cita Sant’Agostino: «Nobis tamen ad certam regulam loqui fas est, ne verborum licentia etiam de rebus, quæ significantur impiam gignant opinionem» (De Civ. Dei, X, 23. PL, 41, 300); continua: «Regula ergo loquendi, quem Ecclesia longo sæculorum labore non sine Spiritus Sancti munimine induxit et Conciliorum auctoritate firmavit, quæque non semel tessera et vexillum Fidei orthodoxæ facta est, sancte servetur, neque eam quisquam pro lubitu vel prætextu novæ scientiæ immutare præsumat… Eodem modo ferendus non est quisquis formulis, quibus Concilium Tridentinum Mysterium Eucharisticum ad credendum proposuit, suo marte derogare velit» (A. A. S. LVII, 1965, p. 758).

 
(9) – In netta contraddizione con quanto prescrive (Sacros. Conc., n. 48) il Vaticano II.

 
(10) – Una volta (n. 259) è riconosciuta la sua funzione primaria: «Altare, in quo sacrificium crucis sub signis sacramentalibus præsens efficitur». Non sembra molto per eliminare gli equivoci dell’altra costante denominazione.

 
(11) – «Separare il Tabernacolo dall’altare equivale a separare due cose che in forza della loro natura debbono restare unite» (Pio XII, Allocuzione al Congresso Internazionale di Liturgia, Assisi – Roma 18-23 settembre 1956). Cfr. Anche Mediator Dei, I, 5.

 
(12) – Raramente è usata, nel Novus Ordo, la parola «hostia», tradizionale nei libri liturgici con il suo preciso significato di «vittima». Ciò rientra nel sistema inteso a mettere in evidenza esclusivamente gli aspetti di «cena» e di «cibo».

 
(13) – Per il consueto fenomeno di sostituzione e di scambio di una cosa per l’altra, la Presenza Reale viene equiparata alla presenza nella parola (n. 7, 54). Ma questa è in verità di tutt’altra natura perché non ha realtà che in usu, mentre quella è, in modo stabile, obbiettivamente, indipendentemente dalla comunicazione che se ne fa nel Sacramento.

Tipicamente protestanti le formule: «Deus populum suum alloquitur… Christus per verbum suum in medio fidelium præsens adest» (n. 33, , cfr. Sacros. Conc., nn. 33 e 7), cosa che, strettamente parlando, non ha senso perché la presenza di Dio nella parola è mediata, legata a un atto dello spirito, alla condizione spirituale dell’individuo e limitata nel tempo.

L’errore non è senza la piú tragica conseguenza: l’affermazione, o l’insinuazione, che la Presenza Reale sia legata all’usus e finisca insieme con esso.

 
(14) – L’azione sacramentale della istituzione è puntualizzata come avvenuta nel dare Gesú agli Apostoli «a mangiare» il suo Corpo e Sangue sotto le specie del pane e del vino, e non nella azione della consacrazione e nella mistica separazione in essa compiuta del Corpo e del Sangue, essenza del Sacrificio eucaristico (cfr. l’intero capitolo I della Parte II – «Il Culto Eucaristico» – della Mediator Dei).

 
(15) – Le parole della Consacrazione, quali sono inserite nel contesto del Novus Ordo, possono essere valide in virtú dell’intenzione del ministro. Possono non esserlo perché non lo sono piú ex vi verborum o piú precisamente in virtú del modus significandi che avevano finora nella Messa. I sacerdoti, che, in un prossimo avvenire, non avranno ricevuto la formazione tradizionale e che si affideranno al Novus Ordo al fine di «fare ciò che fa la Chiesa» consacreranno validamente? È lecito dubitarne.

 
(16) – Non si dica, secondo il noto procedimento della critica protestante, che queste espressioni appartengono a quello stesso contesto scritturistico. La Chiesa ne ha sempre evitato la giustapposizione e sovrapposizione per rimuovere appunto la confusione delle diverse realtà che detti testi esprimono.